Quanto sono utili i farmaci?

In una intervista al “The Indipendent” di quindici anni fa, Allen Roses, allora vice-presidente mondiale della divisione di genetica della GlaxoSmithKline, la casa farmaceutica più grande del regno unito, stimava che il 90% dei farmaci funzionano solo per una percentuale di persone che va dal 30% al 50%, suggerendo che uno screening genetico potrebbe aiutare nel somministrare solamente farmaci efficaci.

L’ignoranza dei pazienti (e a volte anche dei medici) e il desiderio di massimizzare il profitto da parte delle case farmaceutiche può portare a degli scenari non proprio edificanti. Vediamo un paio di esempi:

Supponiamo che da delle analisi del sangue venga fuori che abbiamo il colesterolo “cattivo” alto. E supponiamo che per questo motivo ci vengano prescritte le statine. In questo caso sarebbe utile sapere che l’NNT (Number Needed to Treat: il numero di persone che devono prendere il farmaco perché sia efficace) è per le statine 300, cioè 300 persone devono assumere statine per un anno prima che una di esse sia aiutata, ovvero un attacco di cuore o un ictus sia prevenuto. Uno potrebbe dire che 1 probabilità su 300 è meglio di niente, ma non bisogna dimenticarsi degli effetti collaterali, che nel caso delle statine affliggono il 5% dei pazienti (ad esempio dolori muscolari e problemi gastrointestinali), quindi 15 persone su 300. Conclusione: la probabilità di avere problemi con questo farmaco è 15 volte superiore della probabilità di trarne beneficio.

Un altro esempio: l’intervento chirurgico effettuato più frequentemente sugli uomini con più di 50 anni è la asportazione della prostata per un tumore. Per questo tipo di intervento l’NNT è 49, e gli effetti collaterali, che coinvolgono il 50% dei pazienti sono impotenza, disfunzione erettile, incontinenza urinaria e fecale, e lacerazione del retto. E anche se siete nel 50% dei pazienti fortunati che non subiscono questi effetti collaterali, sembra che il problema tipicamente si ripresenti dopo qualche anno.

Penso sia chiaro che questi dovrebbero essere esempi del tipo di conversazione che dovreste avere con il medico che vi prescrive dei farmaci o vi suggerisce una operazione chirurgica, aiutandovi a valutare se valga la pena di procedere o meno.

Se desiderate  maggiori dettagli sugli esempi descritti sopra, e per saperne di più sull’NNT, date una occhiata al suo sito web, creato da un gruppo di medici indipendenti che non accettano né finanziamenti né denaro proveniente dalla pubblicità, e che hanno sviluppato un sistema di valutazione di varie terapie mediche basato sulla loro documentata efficacia clinica.

Un corso di programmazione un po’ speciale

Dopo un po’ di anni in cui mi sono occupato di formazione online, ora ho finalmente deciso di proporre un corso di programmazione che esemplifichi la mia idea in tal senso.

Fruibile dal proprio desktop, laptop, palmare, o telefono cellulare, questo corso si propone di presentare una introduzione alla programmazione orientata agli oggetti utilizzando il linguaggio di programmazione Java.

Non ci sono particolari prerequisiti, se non la voglia di imparare e l’impegno nell’investire circa 40 ore complessive nello studio dei materiali e nello svolgimento dei test e degli esercizi.

Il corso, organizzato in 9 capitoli, comprende:

– 33 lezioni teoriche di una pagina ciascuna contenenti le informazioni essenziali.

– 8 quiz di verifica e un quiz finale per testare le competenze teoriche.

– Un caso di studio per esercitare la capacità di programmare organizzato in 8 parti. Ogni parte comprende una descrizione del problema e la possibilità di  inserire codice in un semplice ambiente di sviluppo integrato nel browser. Le soluzioni del caso di studio sono inviate ad un elaboratore remoto che le controlla per segnalare eventuali errori sintattici, e ne verifica l’esecuzione eseguendo una serie di test predefiniti. Lo studente vedrà i risultati e potrà riprovare finché non passerà tutti i test.  

E’ proprio quest’ultima parte, gli esercizi che sono validati automaticamente su di un elaboratore remoto, la caratteristica che rende questo corso “un po’ speciale” e a mio avviso interessante soprattutto, ma non solo, per chi vuole imparare a programmare in autonomia. Per ottenere ciò ho utilizzato un ambiente che due miei ex-colleghi del Politecnico di Zurigo (ETH), Christian Estler e Martin Nordio, hanno sviluppato qualche anno fa e che e’ stato già validato con migliaia di studenti in tutto il mondo: Codeboard.

Infine, il corso è offerto gratuitamente, e’ accessibile da una sezione separata di questo sito. Per avere accesso, basta che facciate una richiesta tramite l’email disponibile nell’area contatti di questo sito indicando il vostro nome e cognome ed io vi creerò una utenza con la quale cominciare a lavorare.

In cambio vi chiedo la cortesia di farmi sapere se incontrate problemi, se non capite qualcosa, o semplicemente la vostra opinione sul corso.

Buon corso a tutti!

Dieta e cervello: cinque cose che la ricerca ha stabilito negli ultimi cinque anni


Negli ultimi cinque anni (2013-2018) la scienza dell’alimentazione e la genetica sono giunte a cinque conclusioni importanti che ritengo valga la pena condividere.

Le notizie che seguono sono prese dal blog del Dr. David Perlmutter [1], un neurologo americano molto noto per il suo lavoro di divulgazione su tematiche riguardanti l’alimentazione e le sue implicazioni per il sistema nervoso centrale.

a. Gli zuccheri sono nocivi alla salute. Questo lo sapevamo già, direte voi, ma a livello ufficiale solo ora le linee guida 2015-2010 per la dieta degli americani [2] invocano una drastica riduzione degli zuccheri (e del sale), a vantaggio dei grassi “buoni”, cioè che non siano saturi e non siano insaturi trans.

b. Finora una dieta priva di glutine era ufficialmente consigliata solamente a persone che presentassero una celiachia conclamata. E’ stata ora riconosciuta ufficialmente l’intolleranza al glutine nei non-celiaci [3], che mostra come alcune persone non celiache possono presentare una varietà di sintomi, anche non legati all’apparato digerente, come artrite, stordimento, depressione, mal di testa, irritabilità, dolori muscolari, neuropatie, ansietà, anemia, e difficoltà nella coordinazione. Gli scenari in cui alcuni fra i sintomi sopra elencati si risolvono con una dieta priva di glutine sembra siano piuttosto comuni.
A rendere le cose ancora più interessanti, è stato dimostrato che la permeabilità della mucosa intestinale, uno dei principali meccanismi che provoca infiammazione in tutto il corpo, è rilevabile in tutte le persone che consumano glutine.

c. I neuroni del cervello possono essere rigenerati, a differenza di quanto si pensasse. Ciò può avvenire non solo con l’esercizio fisico, ma anche con una dieta chetogenica appropriata, che prevede una drastica riduzione dei carboidrati a vantaggio dei grassi “buoni”, che vengono usati come combustibile alternativo e maggiormente efficiente. Bisogna dire che la dieta chetogenica è molto dibattuta al momento, e se stanno ancora valutando pro e contro sia per quanto riguarda la perdita di peso che l’utilizzo nella terapia di patologie importanti come il cancro e le malattie neurodegenerative.

d. Il nostro microbioma, cioè l’insieme dei batteri con cui viviamo in simbiosi e che si trovano nel nostro apparato digerente, influenza significativamente il nostro stato di salute. Quindi il nostro stile di vita, che a sua volta influenza il microbiota, influenza anch’esso significativamente il nostro stato di salute. Per stile di vita intendiamo le scelte alimentari, l’esercizio fisico (o l’assenza dello stesso), i ritmi sonno-veglia, i livelli di stress, i farmaci assunti, per fare alcuni esempi.

e. L’idea che noi siamo ciò che è scritto nel nostro DNA sta definitivamente tramontando. Ora si sa che attimo dopo attimo il nostro stile di vita influenza l’espressione dei nostri geni. Questa scoperta, che ha dato vita ad una intera branca della medicina, l’epigenetica, ha delle ripercussioni enormi anche a livello psicologico, perché seppur entro certi limiti ci rende maggiormente padroni del nostro destino.

Se dopo aver letto questo articolo avrete solo la metà dell’entusiasmo e dell’ottimismo che ho io, dovrebbe essere già abbastanza per influenzare positivamente l’espressione dei vostri geni!

[1] https://www.drperlmutter.com/five-things-since-grain-brain/
[2] https://health.gov/dietaryguidelines/2015/guidelines/
[3] https://www.drperlmutter.com/yes-gluten-sensitivity-is-very-real/

Shiatsu e Parkinson: un connubio che vale la pena provare

Lo Shiatsu (in italiano si traduce con digitopressione) è una tecnica giapponese riconosciuta dalle autorità mediche giapponesi che affonda le sue radici nella medicina tradizionale cinese, e utilizza dita, palmi delle mani, gomiti, ginocchia, e tecniche di stretching per stimolare alcuni punti e aree del corpo considerate importanti per mantenere uno stato di salute buono o ristabilire uno stato di salute compromesso. I punti sono quelli utilizzati dalle tecniche di agopuntura, mentre le aree, chiamate meridiani energetici, sono quelle che uniscono tali punti. Il principio è di aiutare il corpo a non ammalarsi in primo luogo, e a curarsi da solo se necessario. Un altro aspetto da sottolineare è l’approccio olistico alla diagnosi dello stato di malattia, che integra possibili cause psicosomatiche.

Nonostante lo shiatsu stia avendo ormai da svariati anni un crescente successo in occidente, ci sono pochi studi scientifici pubblicati che ne verifichino attendibilmente l’efficacia. Ne ho trovati un paio di recenti che illustro brevemente di seguito.

Il primo studio [1] è stato condotto su di un campione di 34 donne affette da fibromialgia, successivamente divise in due gruppi di 17 donne, ciascun gruppo avente sintomatologie simili. Ad uno dei due gruppi sono stati somministrati dei trattamenti shiatsu bisettimanali per 8 settimane, mentre all’altro no. Al termine delle 8 settimane il gruppo cui erano stati somministrati dei trattamenti shiatsu ha mostrato un significativo miglioramento rispetto al gruppo di controllo per quanto riguarda il dolore percepito, la soglia del dolore, e la qualità del sonno.

Il secondo studio [2] è stato condotto su di un campione di 37 soggetti affetti da mal di testa primario, cioè per il quale non sono state trovate cause evidenti, e refrattario alle cure standard. Il campione è stato successivamente diviso in tre gruppi. Ad un primo gruppo è stato somministrato un farmaco utilizzato in questi casi (l’amitryptilina), ad un secondo gruppo sono stati somministrati dei trattamenti shiatsu, mentre ad un terzo gruppo entrambe le cose. Tutti e tre i gruppi sono migliorati, ma il gruppo che ha ricevuto solamente trattamenti shiatsu è migliorato di più e non ha sofferto degli effetti collaterali del farmaco.

Su Shiatsu e Parkinson ho trovato un interessante esperienza della Associazione Svizzera Shiatsu Namikoshi [3], che seppur un po’ datata (2005) e non esattamente rigorosa dal punto di vista scientifico, fa ben sperare.  Si tratta di trattamenti somministrati a 8 parkinsoniani che alla fine hanno testimoniato un miglioramento nella rigidità, mobilità, qualità del sonno, ed in generale dello stato psico-fisico.

Infine io, che sono un curioso sperimentatore soprattutto in assenza di effetti collaterali,  nell’ultimo anno ho provato dei trattamenti shiatsu da quattro operatori diversi (una ventina in tutto) e ho constatato un rilassamento generale, una diminuzione dei dolori muscolari, un miglioramento della qualità del sonno, ed un miglioramento del tono dell’umore. Ho anche intrapreso un percorso per diventare operatore, constatando dei benefici significativi anche nel trattare altre persone.

Che dire? Provate anche voi!

[1] http://ard.bmj.com/content/71/Suppl_3/745.1

[2] https://www.abmp.com/updates/news/new-study-tests-efficacy-shiatsu-and-medication-treat-headaches

[3] http://www.namikoshi.ch/projects/assn/download/attivita_volontariato/36_pdf_parkinson.pdf

Testing black box, Meridiani Energetici, Teoria della Complessità, e Medicina

Figura anatomica in avorio, Giappone, 1800-1920

Data una applicazione software, possiamo pensare ad essa come ad una entità in grado di fornire, a fronte di determinati dati iniziali che noi inseriamo (input), un determinato risultato (output). Quello che in questo caso ci interessa non è il “come” questa entità produca i risultati, cioè l’analisi della tipologia e collocazione delle sue istruzioni interne, ma semplicemente il “cosa” , ovvero i risultati prodotti. Il testing black box di una applicazione prevede appunto di fornire determinati input all’applicazione e stare a vedere come si comporta, non potendo osservare dentro la “scatola nera” quello che succede. Se i risultati prodotti coincidono con i risultati attesi il test si considera superato, mentre se non coincidono, siamo ragionevolmente sicuri che vi è un errore nell’applicazione.

I meridiani energetici, secondo la medicina tradizionale cinese, sono dei canali di energia che scorrono lungo tutto il corpo umano formando un sistema organico coerente che si può paragonare ai sistemi sanguigno o linfatico, comprendendo anche parte di essi. I punti utilizzati dall’agopuntura e da tecniche di digitopressione come lo Shiatsu sono collocati appunto sui meridiani. L’idea è che in un corpo sano l’energia fluisce liberamente, mentre se si creano dei punti di accumulo o di carenza di energia si generano degli scompensi che vanno sanati riportando il flusso alla normalità, pena la malattia. A prescindere da ciò che pensiamo della medicina tradizionale cinese, e a prescindere dal fatto che con i moderni mezzi di indagine diagnostica si stanno iniziando a raccogliere delle evidenze interessanti sull’esistenza dei meridiani [1][2], è interessante notare l’approccio che i medici cinesi hanno escogitato per ovviare al fatto che, sembra, per lunghi periodi storici non sia stato loro concesso di sezionare i cadaveri per analizzarne l’anatomia. Analogamente a ciò che viene fatto con le applicazioni software, i medici cinesi hanno trattato il corpo umano come una black box, osservando che a fronte di un input consistente nella stimolazione di certi punti, corrispondeva un certo output in termini di salute dell’individuo. Non se ne comprendevano le ragioni, ma di fatto l’approccio ha dato risultati tangibili, attingendo alla capacità di auto-guarigione del corpo umano.

Infine, la teoria della complessità. Si è ormai capito che ci sono sistemi i cui comportamenti sono molto difficili da comprendere con un semplice approccio analitico. Fra i molteplici esempi di sistemi complessi abbiamo il sistema climatico, la crosta terrestre (di interesse anche per la previsione dei terremoti), i sistemi sociali ed economici, gli ecosistemi, e gli organismi viventi, tra i quali ovviamente ci interessa il corpo umano. In fisica un sistema complesso viene studiato in maniera olistica, cioè usando un approccio black box. La differenza rispetto al test di un programma deterministico, che restituisce sempre gli stessi valori a fronte dello stesso input, risiede nel fatto che i risultati prodotti potrebbero variare anche a fronte degli stessi input, perché le interazioni fra le varie parti di un sistema complesso non possono venire esaustivamente analizzate.

Nel caso del corpo umano, l’approccio tendenzialmente analitico e sostanzialmente lineare della medicina occidentale, del tipo “ti prescrivo il farmaco X perché lamenti un problema all’organo Y “, sta portando ad un eccesso nella prescrizione e nell’utilizzo dei farmaci. Mentre sarebbe un errore demonizzare la medicina occidentale, perché ci sono problematiche per cui rimane estremamente efficace, sarebbe a mio avviso auspicabile che l’approccio puramente analitico si evolva in un approccio più olistico che tenga conto del fatto che l’uomo è un sistema complesso. Per fare un esempio, i molti problemi specifici che sono causati dallo stress e conseguenti processi ossidativi, potrebbero essere a loro volta connessi a fattori psicologici che potrebbero essere curati senza ricorrere a farmaci, sfruttando le capacità di autoguarigione del corpo umano.

[1] CT Scans Reveal Acupuncture Points

[2] Bonghan Circulatory System as an Extension of Acupuncture Meridians

Il gioco del Go e l’inizio di una nuova era per l’Intelligenza Artificiale

Il Go è un gioco millenario, molto diffuso in Cina, dove veniva considerato una forma d’arte insieme alla pittura, alla musica e alla calligrafia. E’ molto popolare anche in Giappone e Corea, e ad oggi viene praticato da più di 40 milioni di persone in tutto il mondo.

Si gioca con una tavola su cui è tracciata una scacchiera con 19×19 caselle tutte uguali. Le regole sono poche e molto semplici, ma lo sviluppo del gioco è così complesso che le possibili configurazioni di pietre nel corso di una partita sono circa 10170, superando di molto il numero stimato di atomi nell’universo, 1080. Questo lo rende notevolmente più complesso degli scacchi, di cui parleremo in un altro articolo.

Per chi non conoscesse il gioco, il Go prevede due giocatori che si alternano nel collocare pietre (nere per un giocatore, bianche per l’altro) una alla volta sulle intersezioni della scacchiera, cercando di formare territori che racchiudono pietre avversarie al fine di eliminarle dal gioco. Alla fine, quando i giocatori non desiderano collocare ulteriori pietre, la partita finisce e avviene il conteggio delle pietre rimaste sulla scacchiera per stabilire il vincitore.

Vista la complessità del gioco, il suo fascino, dal punto di vista dell’intelligenza artificiale, è costituito dal fatto che un approccio che utilizzi la “forza bruta”, cioè che tenti di calcolare tutte le varianti possibili a partire da una certa mossa, è destinato a fallire, e questo è quanto puntualmente accaduto con i primi programmi che giocavano come dei principianti. I giocatori umani di Go che abbiano un po’ di esperienza utilizzano invece l’intuito nella scelta di una determinata mossa e non sono pienamente coscienti dei processi mentali che li hanno portati a tale scelta. E’ stato in realtà dimostrato che in questo caso “l’intuito” ha a che vedere con il riconoscimento di schemi visivi che si ripetono e dopo un po’ risultano familiari.

Quello che gli scienziati che lavorano alla DeepMind, una azienda britannica di ricerca sulle neuroscienze fondata nel 2010 e successivamente rilevata da Google nel 2014, hanno pensato, è di affrontare il problema di creare un programma in grado di giocare a Go utilizzando due reti neurali artificiali che collaborano tra di loro.

Possiamo semplicisticamente definire una rete neurale artificiale come una rappresentazione software estremamente semplificata di un insieme di neuroni del nostro cervello. In pratica una rete neurale è in grado di modificare la sua configurazione a seconda degli stimoli ricevuti dall’esterno, innescando in questo modo un processo di apprendimento.

Delle due reti neurali summenzionate, la prima è stata utilizzata per studiare centomila partite giocate da forti giocatori umani, cercando di individuare degli schemi, o pattern, di risposta a determinate configurazioni di pietre, o più precisamente le distribuzioni di probabilità delle varie mosse in una determinata posizione. La seconda rete neurale è stata utilizzata per assegnare dei numeri alle diverse mosse possibili in una certa posizione, permettendone una valutazione.

Utilizzando queste due reti neurali la DeepMind ha realizzato il programma AlphaGo, facendogli giocare trenta milioni di partite contro versioni precedenti di se stesso e sfruttando così un processo di autoapprendimento che lo ha portato a battere 4-1 il pluricampione del mondo, il coreano Lee Sedol, nel marzo 2016.

E non è finita qui: ad ottobre 2017 è stata presentata la più recente versione del programma, chiamata AlphaGo Zero, che senza neanche studiare le partite dei giocatori umani e iniziando a giocare in maniera completamente casuale ha sconfitto AlphaGo 100-0 solo giocando contro precedenti versioni di se stesso…

Perché nel titolo ho parlato di nuova era per l’intelligenza artificiale?

Il primo aspetto importante del lavoro degli scienziati alla DeepMind è l’implementazione di un efficace meccanismo di autoapprendimento, cioè il programma riesce a migliorarsi in maniera misurabile imparando dai propri errori, non dipendendo più da regole fisse codificate dai suoi programmatori.

Il secondo aspetto è la generalità dell’approccio, cioè lo stesso programma, se fornito di regole diverse come input, può risolvere problemi completamente differenti usando lo stesso meccanismo di autoapprendimento. Questo e’ fondamentalmente differente da quanto visto fino ad ora in questo ambito, dove ogni soluzione era fortemente dipendente dal problema che doveva tentare di risolvere.

I due aspetti descritti sono fondamentali per sviluppare applicazioni in ambiti completamente diversi, come il risparmio energetico, la sintesi vocale, e la medicina. Applicando di fatto  lo stesso approccio, ma con regole diverse, i centri di elaborazione dati di Google hanno risparmiato il 15% dell’energia elettrica che avrebbero consumato altrimenti, e WaveNet ha fatto compiere un balzo di qualità all’assistente vocale di Google.

Per quanto riguarda la medicina, la DeepMind sta partecipando a vari progetti, alcuni dei quali si focalizzano sull’interpretazione di immagini per aiutare la diagnosi di tumori al collo, al cervello, e al seno, e aiutano a prevedere la degenerazione maculare della retina.

Altri progetti aiuteranno a capire come le proteine si ripiegano su se stesse, requisito fondamentale per poter creare dei farmaci che contrastino l’accumulo di proteine “mal ripiegate”, come avviene in malattie neurodegenerative quali l’Alzheimer (proteina tau) e il Parkinson (alfa-sinucleina).

Infine, e questo avremmo dovuto prevederlo, la DeepMind  sta cercando di ricreare una versione software dell’ippocampo, quella parte del nostro cervello che ha a che fare con la memoria a breve termine e l’orientazione nello spazio.

Ce n’è abbastanza per giustificare il titolo dell’articolo, direi!

Un MOOC sulle metodologie agili di sviluppo software

E’ ora possibile registrarsi e partecipare alla seconda edizione del MOOC (Massive Open Online Course) “Agile Software Development”, proposto dal Politecnico di Zurigo (ETH) sulla piattaforma online edX.

La prima edizione ha avuto circa 15.000 studenti partecipanti ed ha ricevuto buone recensioni. La seconda edizione e’ stata interamente riveduta per quanto riguarda i quiz e l’esame finale.

Il docente, Bertrand Meyer, creatore del linguaggio di programmazione Eiffel e noto guru dell’informatica, non ha bisogno di presentazioni.

Io ho collaborato alla progettazione e all’implementazione del corso, ho creato i quiz e gli esami, e modererò il forum.

Il corso e’ in inglese ed e’ gratuito, previa registrazione sulla piattaforma edX. E’ possibile avere una certificazione dell’avvenuto superamento del corso ad un costo di 50 dollari.

Non ci sono prerequisiti particolari. Se la tematica e’ di interesse potrebbe essere una buona occasione per capire a che punto e’ oggi la formazione online.

Buon corso a tutti!

 

Venti caratteristiche osservabili di un insegnante efficace (Parte 2)

Continuo con gli elementi tipici che si possono osservare, secondo l’Università del Minnesota (USA) quando ci si trova di fronte ad un intervento didattico efficace. Mi sono preso la libertà di tradurre aggiungendo dei commenti miei (tutto quello che non è in neretto). In un post precedente ho presentato i primi dieci elementi, ecco ora gli altri dieci:

  1. Trae inferenze da esempi e modelli, ed usa analogie. Una volta presentati dei modelli e degli esempi applicativi, è utile dimostrare come inferire ulteriori fatti riguardo ai modelli o alle loro applicazioni utilizzando solamente la logica ed eventuali regole (di inferenza appunto) precedentemente fornite. Per aumentare la chiarezza di ciò che spieghiamo, l’occasionale utilizzo di analogie può essere certamente di aiuto, mentre con le metafore è meglio essere più prudenti, visto che per definizione la metafora è semanticamente più lontana dal termine originario.  Se questo sembra un po’ astratto, be’, lo è :), quindi proverò con un esempio: dovendo presentare il concetto di “classe” in un corso di programmazione orientato agli oggetti, si può parlare di classe come modello, codificato in un documento di testo. Si può poi parlare di una serie di oggetti creati applicando la definizione della classe così come appare nel documento di testo. Questi oggetti saranno di fatto aree di memoria di un elaboratore che i programmi potranno utilizzare per immagazzinare informazioni e fare (si spera) qualcosa di utile. Chiaro? Se non lo è, pensate a quando, da bambini, giocavamo al mare riempiendo di sabbia umida delle forme cave di plastica (stelle, animali, ecc.) e poi le utilizzavamo, ruotandole abilmente, per creare tante stelle e animali di sabbia. Ebbene, possiamo immaginare che le forme cave siano le classi e le copie di sabbia di una certa forma siano gli oggetti generati da quella classe.
  2. Mette gli studenti a proprio agio, e permette loro di parlare liberamente. Io aggiungerei che anche il docente deve essere a proprio agio, altrimenti diventa tutto più difficile. Mentre va da sè che l’atteggiamento e il linguaggio non verbale diventano importanti in questo contesto, anche cercare di non urtare la suscettibilità degli studenti costituisce un esercizio di sensibilità da parte del docente.
  3. Insegna in maniera appropriatamente veloce, fermandosi per verificare l’apprendimento. Nella mia esperienza è meglio, avendo un certo tempo a disposizione, essere sintetici e poi verificare l’apprendimento piuttosto che utilizzare lo stesso tempo per una spiegazione più prolissa.
  4. Comunica tenendo in considerazione il livello di tutti gli studenti nella classe. Difficile, ma possibile. Mi trovo spesso in questa situazione quando tengo corsi di programmazione senza prerequisiti particolari. C’e’ sempre chi ha precedenti esperienze che si potrebbe annoiare con un ritmo troppo lento, e chi parte da zero che si potrebbe perdere con un ritmo troppo rapido. Qui la soluzione più efficace che ho trovato è adottare un ritmo lento fornendo delle sfide ai più “esperti” (la cui esperienza rimane da verificare!) in modo da coinvolgerli, ad esempio, anche nella didattica e nell’aiutare i colleghi.
  5. Ha il senso dell’umorismo! Questo elemento dipende così tanto dalla persona e dalla sua sensibilità che risulta difficile esprimersi a riguardo. Un consiglio che mi sento di dare riguarda i corsi online, specie se fruiti da persone che appartengono a diverse culture. Rinunciateci: meglio mantenere uno stile neutro, sobrio, educato, ed efficiente.
  6.  Utilizza la comunicazione non-verbale, come la gestualità, il camminare, ed il  contatto visivo per sottolineare i suoi commenti. Questo è qualcosa che si può allenare, e costituisce una fonte inesauribile di informazioni. Uno spettacolo di un mimo può dare un’idea, anche se ognuno dovrebbe seguire il proprio istinto e la propria personalità.
  7. Si presenta in classe come se stesso. Caratterialmente questo aspetto è per me sempre stato facile, ma capisco che possa variare molto a seconda delle persone. Di certo non pensare troppo agli atteggiamenti da tenere in classe permette di concentrarsi meglio sulla didattica.
  8. Si focalizza sull’obiettivo didattico e non lascia che la classe sia fuorviata. Il docente dovrebbe sempre avere il controllo dell’intervento didattico, e quindi sapere ad esempio quando è opportuno limitare il tempo dedicato a interventi non pertinenti.
  9. Utilizza il feedback degli studenti e di altri soggetti per valutare e migliorare la didattica. E’ veramente importante chiedere del feedback, anche informale, per fare meglio la prossima volta. Nei corsi online, in particolare, grazie al grande numero di studenti che tipicamente partecipano, una attenta disamina di un forum e delle statistiche di fruizione di un corso (quanti studenti ci sono, quanti sono realmente attivi, quanti hanno risposto correttamente ad una certa domanda)  può indicare cosa funziona e cosa non funziona nella nostra didattica.
  10. Riflette sul proprio modo di insegnare per migliorarlo. Questo è un processo che non si può mai considerare concluso. Mi piace mettermi sempre in gioco, non considerarmi mai “arrivato”, osservare i tanti bravi docenti che ci sono in giro, e imparare da loro.

Venti caratteristiche osservabili di un insegnante efficace (Parte 1)

L’Università del Minnesota (USA) ha elencato venti elementi tipici che si possono osservare quando ci si trova di fronte ad un intervento didattico efficace. Mi sono preso la libertà di tradurre aggiungendo dei commenti miei (tutto quello che non è in neretto). Niente di nuovo, trascendentale o rivoluzionario, ma proprio per questo è bene ricordarsene quando si prepara una lezione o prima di entrare in aula:

    1. Inizia in orario ed in maniera organizzata. Sembra ovvio, ma nella mia esperienza potrebbero beneficiarne la maggior parte degli insegnanti che conosco! A volte è divertente prepararsi un piccolo siparietto di entrata per catturare l’attenzione, ad esempio con una battuta, una foto, o un breve filmato.
    2. Rispetta gli studenti e trasmette loro che tiene al fatto che imparino. Più difficile di quanto sembri a prima vista, ma da non sottovalutare. Nella mia esperienza gli studenti intuiranno la nostra passione e dedizione dal nostro atteggiamento, quindi non potremo nascondere facilmente questo aspetto.
    3. Comunica il significato e l’importanza delle informazioni trasmesse. Serve anche a noi docenti in sede di preparazione. Se non sappiamo spiegare perché una nozione è importante, non dovremmo parlarne affatto.
    4. Fornisce spiegazioni chiare, si guadagna l’attenzione ed il rispetto degli studenti, gestisce la classe in maniera efficace. A volte risulta veramente difficile fornire spiegazioni chiare per tutti, quindi bisogna cercare di trovare modi diversi di spiegare le stesse cose: non facile. Parte del guadagnarsi l’attenzione ed il rispetto viene dal punto 2, parte dalla serietà e quotidianità del nostro impegno, parte da aspetti imponderabili. Mi ricordo di quando insegnavo come supplente in un Liceo Classico. C’era un ragazzo che appena entravo in aula usciva. Dopo la lezione l’ho visto e ci ho chiacchierato un po’: ho scoperto che gli piaceva giocare a scacchi, allora abbiamo fatto una partita veloce, l’ho battuto e mi sono guadagnato, da allora in poi, la sua attenzione 🙂
    5. Adotta una metodologia che preveda la partecipazione attiva degli studenti. La lezione in cui il flusso di informazioni va solamente dall’insegnante ai discenti non funziona bene. Quindi interrompersi e fare domande di verifica, proporre esercizi, e osservare il livello di attenzione reagendo di conseguenza, sono tutte tecniche utili per mantenere il controllo sull’intervento didattico.
    6. Varia le proprie tecniche di insegnamento. Difficile, perché bisogna capire chi si ha davanti e trovare soluzioni concrete al volo. Un esempio potrebbe essere rispiegare un concetto (senza ripetere la stessa identica spiegazione) a qualcuno che non ha capito. Un esempio completamente differente si ha quando ci si deve adattare alla formazione a distanza, online o meno.
    7. Spiega in maniera chiara e precisa cosa si aspetta da un compito assegnato. Se potessi tornare indietro nel tempo controllerei ancora una volta tutti i compiti che ho assegnato: c’è sempre qualcosa che sfugge e che potrebbe generare fraintendimenti e interpretazioni errate!
    8. Fornisce feedback immediato e frequente agli studenti sulla loro prestazione. E’ incredibile quanto sia facile, per uno studente e anche per noi insegnanti, credere di aver capito, specie se si tende ad essere pigri! Mi sono fatto troppe volte ingannare da quel movimento sussultorio del capo dello studente che suggerisce un assenso e vedendo il quale mi sono sentito incoraggiato, come docente, a non verificare l’apprendimento. Soprattutto quando non si conosce bene lo studente, meglio verificare, ed eventualmente dare un feedback negativo e poi un incoraggiamento piuttosto che non dare feedback affatto.
    9. Loda le risposte degli studenti ed usa delle domande ulteriori per assicurarsi della comprensione degli argomenti trattati e per approfondirli. Come studente mi sono sentito molto incoraggiato dai docenti che prendevano in considerazione seriamente le mie risposte. In certi casi, con persone poco comunicative, una risposta qualsiasi ad una domanda  del docente potrebbe essere importante per stabilire un canale di comunicazione. Per quanto riguarda le domande degli studenti, mi è capitato spesso di sentire uno studente premettere alla sua domanda: “Forse è una domanda stupida…”. La risposta standard in questi casi dovrebbe essere sufficiente: “Le uniche domande stupide sono quelle non fatte!”
    10. Fornire esempi concreti, pratici, di vita vissuta. A seconda del grado di astrazione dell’argomento trattato, questo può essere più o meno semplice, ma l’efficacia del consiglio non si mette in discussione. Pensare a degli esempi potenzialmente efficaci o interessanti prima della lezione sarebbe l’ideale.

Nel prossimo post commenterò gli altri dieci elementi.

Qui si inizia

Fino ad oggi avevo pensato che non avrei mai avuto un blog, perché non avevo molto da dire.

Mi potrei essere sbagliato, anzi mi sono sicuramente sbagliato, quanto meno sul fatto che non avrei mai avuto un blog.

Nei prossimi mesi vedremo se mi sbagliavo anche sul fatto che non avrei avuto niente da dire.